venerdì 3 ottobre 2014

"La roccia viva". Scalando verso la caduta.

“Siccome venivano in discesa – che non richiede una seria fatica, ma soltanto un allegro frenare e puntare le ginocchia per evitare di correre e inciampare, e in sostanza non è altro che un lasciarsi cadere – la loro andatura aveva un che di alato e leggero che si comunicava al loro volto, a tutto il loro aspetto, e poteva far nascere il desiderio di essere dei loro”.
T. Mann, La montagna incantata


 La Roccia viva non ha l’andatura di una discesa leggiadra e alata, come descrive il grande narratore tedesco amato dalla protagonista e presente nel momento cruciale degli incontri con gli altri due personaggi del romanzo.
La Roccia viva è una discesa impervia e tormentata che tiene fatalmente legati al filo della corda di una trama coinvolgente e intrecciata. E fa nascere il “desiderio di essere dei loro”, di essere spettatori e attori di una storia che ci riguarda, mettendoci, magari, nei panni di Livia, Ermanno o Edoardo, gli amici che meglio di chiunque altro conoscono i tre protagonisti.
È una discesa verso la meta di ognuno dei tre, un percorso di deflazione lungo le pareti rocciose di una montagna dove l’uomo, più che tentare di conquistarla ed ergersi con il suo ego borioso e sfruttatore, non può che affidarsi alla sua stabilità e imprevedibilità. La montagna accoglie, ammalia, è il bacio, come un grazie, quando i piedi toccano la vetta. La montagna decide, inganna, è sostanza, è materia, è roccia.
E quella roccia è punto di partenza e approdo del cammino di Chiara, Michele e Rudi, tre ragazzi quarantenni della Milano da bere che l’occhio discreto dell’autore ci fa conoscere di soppiatto, la cinepresa del suo sguardo ci fa entrare lentamente e con discrezione nelle loro vite e nelle loro case. Li incontriamo quasi per caso mentre, per esempio, una domenica mattina percorriamo in bicicletta una silente e ghiacciata via Palestro. Ma non per caso si impongono alla nostra attenzione, stagliandosi sullo sfondo di Milano e delle Alpi, perché le parole di Matteo Sartori disegnano appassionatamente e amichevolmente quei tre ragazzi, dipingono l’animo umano sempre connesso all’anima dei luoghi, della storia e del nostro tempo presente. L’autore cammina insieme ai suoi personaggi, costruisce la strada mentre la percorrere, li guarda e si lascia guardare da loro. Il suo è un punto di vista in movimento, ha la capacità di “salire sul dorso della tartaruga” che, secondo la famosa teoria indiana della molteplicità dei punti di vista, permette di vedere l’universo attraverso gli occhi di chiunque venga messo sopra la tartaruga. Un narratore dai molteplici volti che ogni volta riesce a rendere ogni storia e ogni sguardo interessante grazie allo “shifting viewpoint”, al suo sguardo mobile.
E c’è una musica che accompagna il cammino di Chiara, Michele e Rudi, canzoni che non fanno solo da piacevole e cullante sottofondo alla lettura ma creano un’atmosfera unica e singolare, donano tempo all’immaginazione come lo spazio bianco tra le parole.
E alla fine, credo sia la discesa ciò che conta, la caduta sulla roccia che impone una sosta alle vite sfrenate che corrono impazzite verso il vuoto accecante del nostro tempo. Una caduta che può portare alla distruzione, alla scoperta della propria essenza e ciascunità o ad una nuova rinascita.

“Allora la fine diventa ancora una volta un inizio e l’ultima parola spetta alla vita”.
P. Brook

domenica 21 luglio 2013

“Tra cinque minuti in scena”. La vita che sta nel teatro che sta nel cinema.


Si potrebbe dire che “Tra cinque minuti in scena” è un film sulla vecchiaia e sulla malattia, su un rapporto di “vero amore” tra una figlia e la propria madre divenuta anziana e da accudire, “sull’inversione di ruolo madre-figlia che l’allungamento dell’età media della vita impone sulla società contemporanea”, o ancora sulla difficoltà di fare teatro oggi in Italia e sullo stato di profonda crisi del mondo dell’arte in generale. Un “esordio coraggioso” di una giovane regista tra le opere prime del cinema italiano che “sfida” ogni tentativo di classificazione intrecciando linguaggi diversi e che qualcuno ha detto sembra richiamare per “l’inevitabile cupezza dell’esperienza l’Haneke più digeribile”.
Si potrebbe dire questo e ancora di più, si potrebbero sfoggiare ulteriori rimandi arditi e dotti o giudizi estetici, morali e ideologici indossando gli occhiali sedicenti e sentenziosi di certi critici cinematografici che spesso riducono l’opera a un oggetto da sezionare e valutare, uno strumento per parlare di sé, delle proprie emozioni e delle proprie competenze cinefile. E dopo aver consultato una recensione potremmo forse avere l’impressione di aver definitivamente compreso il film, di averne carpito il segreto e abbandoneremmo in fretta il buio della sala per proclamare luminose e saccenti interpretazioni, per inondare le immagini con le nostre impressioni e reazioni immediate senza aver dato la possibilità all’opera di mostrarsi, di aprire una breccia nel nostro ego borioso e incrollabile e di provocare una qualche trasformazione.
Si potrebbe, ma non basta. Potremmo provare ad accostarci alle opere cinematografiche con uno sguardo altro, umile e rispettoso, accogliente e stupito, sensibile e simbolico che prova a mettere tra parentesi e a sospendere momentaneamente il nostro io tracotante e strabordante per lasciare che le immagini ci parlino, si manifestino affinché possano irradiare il loro potenziale conoscitivo e trasformativo.
Come suggerisce Jean Espstein, è il cinema stesso che, attraverso la sua capacità di rappresentare la realtà in immagini si fa “strumento di una nuova conoscenza non più basata su presupposti cartesiani e kantiani, bensì su una logica «affettiva e onirica» fondata appunto sul principio di analogia”. Pensare per immagini e pensare con le immagini permette di allentare il criterio razionale che è alla base della logica verbale per affidarsi alla facoltà immaginativa e alle sue potenzialità cognitive e trasformative.
E allora accostandoci di soppiatto al film e lasciandoci impregnare dalla sostanza delle immagini vediamo emergere dallo sfondo di una Milano marginale, a parte, separata, una figura femminile che racconta e si lascia raccontare da vicoli oscuri, da tunnel deserti laddove le vie stesse si fanno meditabonde e conducono lontano dai movimenti convulsi e anonimi della folla. Una figura androgina che si muove determinata e irrisolta tra finzione e realtà, vita e morte, tra il ruolo di figlia, attrice, amante. Figura che ogni giorno cammina attraverso la città per recarsi in un teatro, su un palcoscenico. Un teatro che è separato non solo dalla città, ma anche dal produttivismo, dall’utilitarismo che ci assedia, un teatro inutile la cui inattività lo condanna a tenersi ai margini della società.
Il teatro è uno spazio liminale, sulla soglia, un cerchio magico che trasfigura la realtà in un bianco e nero patinato, il teatro, suggerisce Antonacci, “è graffiante, provoca ferite che poi faticano a rimarginarsi”. Sul palcoscenico viene rappresentata la vita, viene presentificata in forma di commedia l’esperienza di cura della madre anziana che Gianna, la protagonista, sta vivendo fuori dallo spazio speciale del teatro. E per un attimo la vita reale sembra non riuscire a rimanere fuori, reclama una rappresentazione, un’attribuzione di senso e tracima in una identificazione tra persona e personaggio. Come hanno ben mostrato gli studi di Turner, il teatro non è una semplice ripetizione della vita, ma è una azione performativa (da parfournir, «completare» o «portare completamente a termine») che permette di attribuire un significato alla vita stessa, è la “conclusione adeguata di un’esperienza”. Il corpo di Gianna si farà allora medium e messaggio che consentirà a se stessa e a noi spettatori di dare ordine alla vita e dare senso allo scorrere del tempo, contro o verso l’ineluttabilità della morte. Nell’intreccio tra teatro e vita, rimaniamo graffiati, feriti e al contempo trasformati dalle immagini di vita e morte, vecchiaia e infanzia, dolore e gioco tra madre e figlia.
Il teatro è anche un luogo di incontri tra molteplici figure femminili che condividono le loro solitudini e i loro sogni dietro le quinte, nello spazio segreto e sacro del camerino.  È un femminile che seduce, turba, disorienta e mette a disagio un maschile intrappolato nella rete del produttivismo, un femminile che sa rimanere in contatto e sostare nell’oscurità della vita, un femminile indomito e indomabile che ha vissuto nell’assenza del maschile, un femminile sfuggente che si muove nella notte e si ferma sui crocicchi.
Un femminile che saprà riportare in vita il teatro e la vita nel teatro.

E le immagini potrebbero continuare a dire.

domenica 16 giugno 2013

Città e anima. Verso la bellezza lungo "Rotaie verdi".


Il mondo non chiede che si creda in esso; chiede che ci si accorga di esso, che lo si apprezzi, e che si abbia attenzione e cura(J. Hillman)
 
Nell’appassionato testo “La politica della bellezza” James Hillman mostra come la nostra condizione umana attuale sia caratterizzata da uno stato di anestesia, di “ottundimento psichico” nei confronti del mondo. La nostra cultura efficientistica e produttivistica, votata al gigantismo, a un “consumismo gargantuesco”, alla devastazione ambientale ha ottenebrato la nostra sensibilità, ci ha resi disinteressati e inconsci del mondo reprimendo la nostra capacità di dare una risposta estetica a ciò che ci circonda, di reagire al bello e al brutto, di partecipare attivamente all’anima mundi. “Passeggiare accanto a un edificio mal disegnato, vedersi servire del cibo preparato in modo sciatto e accettarlo, mettere sul proprio corpo una giacca tagliata e cucita male, per non parlare del non sentire gli uccelli, del non accorgersi del crepuscolo… tutto questo significa ignorare il mondo”.
Si fa urgente per Hillman la necessità di accorgerci e reagire all’assalto del brutto che si riflette sulla nostra anima personale, ci ingabbia in uno stato di “conformità ottundente”, di malessere e depressione rendendoci diligenti cavalli da tiro con i paraocchi che si affrettano e affaticano, giorno dopo giorno, come lavoratori e come consumatori. È necessario mettersi al servizio dell’inestinguibile desiderio di bellezza che ha l’anima, “quel sentimento di misura e armonia cosmica che accendono Eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni, non soltanto umane”. È necessario il coraggio del cuore di ognuno perché, per quanto semplice possa sembrare, la risposta personale ed estetica di ciascuno può andare ancora più in profondità di ogni protesta o campagna dettata da qualche ideologismo, delle manifestazioni oceaniche in piazza sui generi, sul razzismo, sull’ambientalismo.  
E secondo l’invito di Hillman di “partire proprio da dove si è”, nel cuore del caos, ho deciso in questo breve post di partire dalla città che da pochi giorni mi ha accolta tra i suoi cittadini, di partire dalle immagini di questo video che ci immergono in un’oasi tenace e spontanea nel cuore di Milano. Una natura ostinata e selvatica che si è ripresa una parte della metropoli arricchendo un terreno abbandonato a se stesso con pioppi, salici, canneti e decine di varietà di fiori che costituiscono l’habitat di numerose specie di uccelli. E sostando in questa natura miniaturizzata, in questa biosfera in miniatura vorrei raccontare di un progetto, di un piccolo atto di “protesta e di apprezzamento” che può aprire, a mio parere, delle brecce nella condizione di ottundimento che ci ha resi inconsapevoli e incuranti della sofferenza dell’anima del mondo.
Il progetto “Rotaie verdi”, che vede coinvolti in partnership la cooperativa Eliante, WWF Italia e il comune di Milano, si propone di creare un corridoio ecologico urbano lungo le linee ferroviarie, dismesse o in attività. A partire da esperienze già realizzate con successo in altre città come Parigi (Promenade planteé), Londra (Oasi urbane) e New York (The High Line) questa struttura si insinuerebbe nel tessuto urbano disseminando lungo i binari dei treni aree verdi, parchi non addomesticati dove una natura selvaggia, viva e ricca di biodiversità potrebbe non solo “fornire importanti servizi ambientali a livello locale, come la regolazione del microclima e il contenimento delle piante alloctone e dannose come l’Ambrosia”, ma potrebbe “salvaguardare il bisogno che ha l’anima di bellezza, e il soddisfacimento di questo bisogno da parte della natura”. Non credo si tratti di idealizzare ed evocare il ritorno a una natura selvaggia che, come suggerisce Hillman grazie a Jean-Jacques Rosseau ha allontanato il nostro cuore dalla città, ma di ripristinare l’ambiente naturale nell’urbano utilizzando mezzi tecnici come hanno fatto per secoli le arti, come il giardino giapponese che non è natura, ma è l’arte di imitare la natura. Biosfere in miniatura per tutta la città: “da una romantica e sublime immersione nella vastità, alla gioia che viene dal considerare il particolare”.
In una prospettiva di medio-lungo periodo il progetto prevede, inoltre, una riqualificazione architettonica sostenibile delle aree in abbandono, degli scali dismessi per creare centri di aggregazione per la cittadinanza. Luoghi d'incontro dove passeggiare, chiacchierare, sostare, dove sia possibile fare una pausa dalle incombenze e lotte quotidiane, dove sia possibile incontrarsi "ad altezza occhio"e in contatto con l'anima. Luoghi della e nella città dove portare il nostro corpo fisico, dove sia possibile ritrovare l'intimità e l'esigenza di stare insieme, di immaginare, parlare, fare, scambiare.
Per andare oltre la scissione tra natura e città, tra piacere e lavoro, tra città e anima e per risvegliare la bellezza "Rotaie verdi" si muove luongo i binari dell'anima, rivendica la necessità di una risposta estetica che "conduce all'azione politica, diventa azione politica, è azione politica".
Prendersi cura dell’anima della città, significa prendersi cura della nostra anima personale e dell’anima del mondo.
Un’ecologia che recuperi l’anima non ha luogo soltanto nella Sierra Nevada: noi recuperiamo l’anima quando recuperiamo la città nei nostri singoli cuori, il coraggio, l’immaginazione, e l’amore che portiamo alla civiltà.(J. Hillman)
 
Lo scalo di Porta Romana nelle prospettive del progetto




 


 

 

domenica 12 maggio 2013

Il corpo al centro del cerchio. La roda di capoeira.


 


Un cerchio disegna e delimita lo spazio, la musica scandisce il tempo, l’energia si irradia dai corpi e il gioco ha inizio. E’ la roda di capoeira, un cerchio di persone all’interno del quale si danza e si gioca capoeira.
Due giocatori si dispongono al centro del cerchio e si sfidano danzando una lotta che ha origini da  lontani rituali di alcune tribù dell’Africa centro-occidentale. I corpi sono vigili, attenti, attaccano e si difendono per dimostrare la propria superiorità senza l’intenzione di distruggere il rivale e nel rispetto dell’avversario, soprattutto quando questo non può difendersi. Si avvicinano e allontanano, avanzano e indietreggiano, si sfiorano, si provocano, si intrecciano sinuosi senza toccarsi come se “l’azione non terminasse lì dove il gesto si arresta nello spazio ma continuasse molto più avanti”. Compiono movimenti acrobatici, fluttuando nell’aria e mantenendo al contempo un contatto imprescindibile con la terra. E dal suolo, dal battito dei piedi si modella la forma del movimento, si irradia l’energia che come linfa vitale rende vivo l’intero corpo fino a confluire nelle braccia, nelle mani e nelle dita che nelle loro molteplici possibilità di articolazione esprimono mute l’intenzione di colpire, di difendersi, di ammaliare o ingannare l’avversario.
I corpi sono tesi nell’opposizione di forze e tensioni contrastanti che alterano il loro equilibrio rendendoli  “decisi”, sempre pronti ad agire, a spiccare il volo e “fortemente presenti”. E questa danza di opposizioni, come indica Eugenio Barba, viene danzata nel corpo prima che con il corpo e conferisce al capoeirista una qualità di presenza che colpisce e obbliga gli spettatori a guardarli. Per raggiungere questa qualità speciale di presenza è necessario un allenamento, una disciplina, una tecnica del corpo che permette di sviluppare una profonda consapevolezza e sapienza corporea per poi improvvisare, per agire e lasciarsi agire liberamente dal proprio corpo e dal corpo dell’altro in un intrecciarsi di movimenti e gesti che fanno sviluppare l’azione del gioco in maniera imprevista nello spazio normato della roda.
Nell’ambito di questa arte marziale, Mestre Bimba è stato il primo educatore di capoeira che, negli anni trenta del secolo scorso, ha creato la prima academia e ha istituito una preparazione basata sull’esercizio e sulla disciplina che non era finalizzata solo alla partecipazione alla roda ma comprendeva un progetto di formazione dell’uomo, un progetto di perfezionamento del corpo-mente per poter affrontare  l’avversario così come la vita.
La roda è uno spazio speciale, è un cerchio magico, una festa dove le persone si riuniscono solo per giocare, per danzare, senza uno scopo altro dal piacere che si vive nel momento presente. É una radura, uno spazio d’incontro, di attenzione, ascolto, cura e rispetto ma anche di astuzia, malizia, incantamento e sorpresa. Un luogo ambivalente dove si intrecciano inestricabili la collaborazione e la competizione, il corpo e la mente, la libertà e la regola, il divertimento e la serietà, le emozioni e la razionalità, la spontaneità e la finzione.
Spazio ludico e spazio educativo che fa risplendere il corpo nella sua integralità, lo mette al centro del cerchio dove si danza per lottare e si lotta per danzare, per rivendicare la presenza del corpo e del gioco dalla soppressione continua e incessante che avviene nei luoghi dell’educazione. E allora in ogni scuola, di ogni ordine e grado, si potrebbe e dovrebbe dedicare un tempo alla capoeira, così come alla danza, al teatro, alle arti marziali e circensi, a tutte quelle attività corporee che aprono alla possibilità di giocare il corpo e con il corpo, di sperimentare le istanze “pericolose e inaccettabili”, lo spirito bellico, aggressivo, la violenza, che ci sono necessariamente in ogni bambino, adolescente, ragazzo facendogli provare l’eccitante finzione di un battaglia in una “forma fittizia e artificiale, totalmente protetta”.
Ma credo che anche ogni educatore e insegnante dovrebbe dedicare il suo tempo di formazione alla scoperta e al perfezionamento del suo corpo-mente per prendere consapevolezza del suo esserci come presenza integrale, corporea e desiderante e per provare a mettere finalmente in discussione gli assiomi razionalizzanti e disciplinanti che ci muovono come marionette sulla scena formativa, legati ai fili di un sapere vetusto e incrollabile. 
 

 

 

domenica 10 febbraio 2013

Girovagando nello spazio immaginale di ogni stazione

Ogni stazione ha un suo odore, un sapore, una tonalità, una sonorità. Ogni stazione è un microcosmo guizzante, vibrante, libero nel suo respiro, brulicante di dettagli e attraversato da traiettorie curve, serpentiformi che vanno verso l’esterno per poi ritornare verso l’interno senza dirigersi mai verso una meta definitiva. E sostando in ogni stazione si affluisce nel sistema circolatorio della sua folla, si diventa anonimi e infinitesimi in quel tumulto, ci si perde con la miriade dei nostri simili, si precipita in quel vortice, “verso l’ignoto, verso il cielo di una qualche comunanza”.
La stazione è un luogo fluido, dinamico, instabile dove lo sguardo ha la possibilità di rallentare il suo movimento rapido trattenendosi concentrato sull’andare e venire delle persone, su un corpo in attesa impaziente, su un viso reclinato, su uno scambio di risate, sorrisi e bisbigli. Si può rimanere a lungo seduti in un angolo o girovagare tra la folla ascoltando, osservando e registrando, come gli angeli di Wenders, i pensieri, i ricordi, le emozioni, i progetti frantumati delle persone che attraversano quotidianamente e abitualmente una stazione o vi passano per un caso eccezionale.
Terra di nessuno e di ognuno, terra del tempo passato e presente, di storie individuali e della storia del mondo, di migliaia di pensieri, emozioni, corpi che si aggirano inquieti in uno spazio e in un tempo sospeso, si sfiorano, si incrociano guardandosi distrattamente oppure non alzano mai gli occhi per non correre il rischio di incrociare uno sguardo che potrebbe provocare un incontro, che talvolta avviene in una stazione.
Le stazioni sono luoghi liminali, di passaggio, di transizione, abitati da Ermes, il dio greco che sta sui confini, pone in comunicazione, sovraintende i legami, gli scambi. Le stazioni, nel film Tickets  del trio registico Olmi-Kiarostami-Loach, sono luoghi di incontro, abbandono e incompiutezza dove ha inizio una storia che si svolge lungo i binari di un viaggio in treno, e la stazione successiva diventa punto di partenza per un altro racconto in un tempo spiraliforme che lega e annoda, congiunge le trame di infinite e possibili storie.
Ermes, come indica Barioglio, è un “essere ambiguo e duplice, guida delle anime, ladro e furfante, messaggero degli dei, araldo di Zeus come di Ade, medium congiungendi tra cielo e terra, tra spirito e materia, tra interno ed esterno, corpo dell’uomo e corpo del mondo”. La presenza di Ermes si può allora avvertire obliqua e ispiratrice nello spazio immaginale di ogni stazione posta sul confine tra presenza e assenza, attesa e compimento, superficie e profondità, realtà e immaginazione, interno e esterno.
La stazione è un luogo ambiguo e ambivalente che mostra e nasconde nella penombra dei suoi sotterranei e dei suoi tunnel le persone marginali e emarginate, gli invisibili ignorati dal mondo, esibisce artisti e musicisti, pazzi e folli, anime nomadi e precarie che trovano ai suoi bordi una sistemazione provvisoria. È un territorio di caccia, di questua o di sopravvivenza per mendicanti e borseggiatori che si aggirano fragili, furtivi e coraggiosi nel suo sottosuolo.
Nelle stazioni il tempo è sospeso, si interrompe il fluire produttivo e finalistico della vita, abbiamo la possibilità di sostare in un presente tranquillo, di vivere l’intensità emotiva di un momento di attesa, di partenza o di ritorno guidati più dai sogni e dalle fantasie che da una progettazione razionale del futuro. Oscilliamo in quell’attimo di sospensione, di vuoto, di equilibrio labile, di immobilità dinamica in cui si sta per fare qualcosa, in cui forse prenderemo, uscendo dalla stazione, una nuova e insolita direzione o, forse, ci ritufferemo a capofitto nella folle corsa contro il tempo delle nostre città, della nostra società prostrata alla deità del trinomio di progresso, crescita e innovazione. Anche le stazioni sono diventate sempre più automatizzate, i bigliettai stanno sparendo sostituiti da macchine mute e siamo costretti inermi alla tortura di assordanti e accecanti video pubblicitari. Ma nonostante questa infausta tecnologizzazione certe stazioni rimangono, concordando con Marc Augè, dei luoghi densamente popolati e animati di ricordi, abitudini, incontri, volti sconosciuti e familiari dove è possibile intrattenere con lo spazio “una sorta di intimità corporea misurabile nel ritmo della discesa nella rampa di scale, nella precisione del gesto con cui si introduce il biglietto nella fessura del portello di accesso o nell’accelerazione del passo quando si indovina dal rumore l’arrivo del treno sul bordo del binario”.
E come per tutti i viaggiatori arriva il momento di partire: si passa il tornello, ci si avvicina al binario e sul bordo della banchina non si resiste alla tentazione di tendere la testa per “cercare di scorgere, nella profondità del tunnel, lo strano movimento di tenebre e luci che annuncia l’imminente apparizione del treno” e un nuovo viaggio verso l’ignoto.
 
 
 
 

mercoledì 2 gennaio 2013


Quando il corpo viene “obbligato” a muoversi. Pratiche corporee e dimensione immaginale nel tempo concentrato e prezioso di un laboratorio.
 

«Ho vissuto il corpo come limite, confine, cambiamento, protezione, separazione e connessione tra me, gli altri ed il mondo. É stato un po’ come riappropriarsi del proprio corpo, prestare attenzione a quanto di solito è invece dato per scontato e normale, tanto da non ascoltarlo più (respiro, battito cardiaco, vibrazione tra addome e colonna vertebrale determinata dall’emissione sonora, per esempio), per riprenderne coscienza come parte che mi appartiene o su cui posso agire, che posso anche attivare in modo “nuovo”, “diverso” dall’abituale e inconsapevole».

Così una studentessa del terzo anno di Scienze dell’Educazione restituisce il percorso di due giornate laboratoriali  in cui viene chiesto di mettere in gioco il corpo, le emozioni, di lasciare la mente “navigare come le nuvole” per provare ad avviare una riflessione rispetto alla dimensione corporea in educazione, al proprio esserci come corpi sulla scena formativa. Giunti quasi al termine del loro percorso universitario gli studenti sono “obbligati” (i Laboratori di Didattica delle Attività motorie prevedono una frequenza obbligatoria) ad indossare un abbigliamento comodo e a recarsi nell’unico e trascurato laboratorio motorio dell’università o in un’ampia sala di una scuola teatrale. E lo spazio vuoto, senza banchi inchiodati ai pavimenti e una cattedra dietro la quale si esibisce e si nasconde il docente li imbarazza, li disorienta, entrano timorosi, incerti se togliersi le scarpe e quando seduti in cerchio condividono le loro aspettative rispetto a ciò che sta per succedere si rassicurano vicendevolmente, certi che la maggior parte di loro vorrebbe non assistere a una lezione frontale e al contempo non vorrebbe esibirsi, giocare, danzare, fare teatro, mettere in gioco il corpo. Dopo aver riposto letteralmente e metaforicamente in una valigia le aspettative, i pre-giudizi, le pre-comprensioni  i corpi iniziano a muoversi  in un tempo e in uno spazio speciali, inconsueti, intensi e preziosi. Uno spazio di quiete che lascia ad ognuno il tempo di incontrarsi, mostrarsi, ascoltare e ascoltarsi, agire e lasciarsi agire. Un tempo di riposo in cui ci si ferma per godere senza fretta il piacere di auscultarsi, di percepire il proprio respiro, il battito del cuore, le emozioni che provengono da un gesto, da un contatto, da uno sguardo. Un tempo di riflessività in cui, in gruppo, si lasciano fluire, condensare e poi di nuovo fluire le molteplici significazioni possibili che l’ambiguità e l’ambivalenza del corpo lasciano emergere. Si condivide il sentire del corpo, non con un obiettivo intimistico e psicologizzante, ma per comprendere il suo esserci e stare nella relazione educativa, per percepire quella “qualità di presenza particolare, viva e autentica” sulla scena formativa. Per questo vengono proposti dei giochi e degli esercizi che provengono dall’ambito teatrale, che non hanno alcuno scopo di carattere performativo, ma provano ad avviare una riflessione rispetto ad alcune dinamiche educative a partire dal vissuto del corpo in un intreccio inestricabile e proficuo tra prassi e teoria. Senza la pretesa e la supponenza di scoprire un’unica e prescrittiva modalità di “esserci”, per ognuno si apre la possibilità di interrogarsi rispetto alla propria ed unica presenza corporea, a come ogni corpo si presenta, si mostra e si nasconde al mondo, come guarda e si lascia guardare, come i gesti degli altri agiscono su se stessi, “espressivi tanto quanto la parola, modulabili in ampiezza al pari del timbro della voce, capaci di accogliere ed includere, come pure di rifiutare ed allontanare”.
E al termine del primo incontro si lascia parlare il corpo che restituisce attraverso diverse modalità espressive la propria idea di educazione per provare ad acquisire consapevolezza delle immagini, dei saperi, delle emozioni, dei vissuti che orientano e determinano la propria presenza di educatori, per non lasciarsi agire inconsapevolmente da esse ma per agirle criticamente. Dopo questa prima parte che può essere considerata come una “pars destruens” viene proposta ai ragazzi una “parte costruttiva” per provare ad arricchire il loro sguardo sul corpo in educazione. Gli studenti vengono invitati e accompagnati ad entrare in contatto con il corpo di alcune immagini pittoriche particolarmente significative rispetto alla presenza del corpo nei contesti educativi. Dopo un momento di visione, meditazione e circolazione delle molteplici vie di significazione che le opere indicano i ragazzi provano a restituire una visione rinnovata e approfondita dell’opera d’arte lasciandosi parlare dal corpo. Alcune volte si limitano a una drammatizzazione o a una narrazione dei significati incontrati nel contatto con l’opera, ma capita anche che la restituzione corporea, attraverso un gesto, un suono, un urlo o un silenzio  riesca a condensare e a far risuonare il mondo immaginale dell’opera. E questo richiede un continuo, paziente e arduo esercizio di movimento, di spoliazione, di pulizia, di poetica del gesto e del corpo per ritrovare, come suggerisce Francesca Antonacci, “le risorse e le potenzialità simboliche e materiali del suo linguaggio cinestesico”. Per questo è necessario continuare ad “obbligare” il corpo a muoversi in un tempo dilatato e prezioso che non si limiti ad un breve laboratorio.
 

lunedì 27 agosto 2012

"Angeli dormienti" tra cielo e terra

 
“Music  is well said to be the speech of angels; in fact, nothing among the utterances allowed to man is felt to be so divine. It bring us near to the infinite”.
 


La musica ci trasporta in una dimensione altra, apre uno spazio fluttuante e ondeggiante, propizia l’ingresso in un presente sonoro prezioso e concentrato, ci avvolge e abbraccia nella sua materia liquida, sonora e graffiante facendoci entrare in un altro ordine del vedere e dell’ascoltare, “una sorta di percezione precategoriale, una visione preverbale”, presignificante. Il suono, scrive Nancy, proviene e si dilata, trascina via la forma. “Non la dissolve, piuttosto l’allarga, le dà un’ampiezza, uno spessore e una vibrazione o un’ondulazione al cui disegno non fa che approssimarsi di continuo”.
La musica ci immerge nell’ascolto delle immagini sonore e visive del video del gruppo islandese dei Sigur Rós. Una musica ancestrale che sembra provenire da un altrove e ci situa in un altrove incantato e sospeso, ci invita, con i suoi vocalizzi distillati e reiterati, a rallentare e ad entrare nell’ascolto per cogliere il risuonare delle cose e dei corpi tra loro, “prima e al di qua dei nostri schemi categoriali e percettologici”. È una musica priva di significato, un linguaggio (vonlenska in islandese) inventato dal cantante e chitarrista del gruppo, fatto di vocalizzi improvvisati, femminei e acuti, espressione di ciò che rimane d’ineffabile di un discorso concettuale. Forse, per questo, all’inizio del video si dice che la musica sia il linguaggio degli angeli: per la sua capacità di approssimarci al divino, all’infinto, a quella dimensione sognante e misteriosa, eterea e terrestre, dolce e impetuosa descritta dai suoni e dalle immagini di “Angeli dormienti”.
Immagini poetiche danzate da creature angeliche, corpi intermedi e intermediari come forse sono i corpi disabili che albergano in una dimensione altra, tra realtà e irrealtà, consapevolezza e inconsapevolezza, in uno spazio misterico in cui si incontrano la vita e la morte, il dolore, il male, la fragilità, la nostra debolezza costitutiva. I loro gesti e i loro sguardi inattesi, concentrati e presenti nell’azione che stanno compiendo è come se mettessero in scacco il sapere, il nostro fare affrettato e risolutivo, le nostre pretese direttive, ci spiazzano, non abbiamo ben chiaro come muoverci, come rispondere, che fare. Forse non possiamo far altro che rallentare, lasciarci condurre da queste guide alate e terrene nel “paesaggio sognante” delle immagini visive e sonore del video e provare a danzare e lasciarci danzare dai suoni, dai corpi e dalle parole in un continuo movimento oscillatorio tra alto e basso, tra terra e cielo.
Il suolo verde e sconfinato sembra rappresentare il radicamento che il corpo mantiene con la terra e a questa concentrazione al suolo risponde, per contro, un’espansione verso l’alto. L’altezza è “messa in evidenza” da uno sfondo bianco e abbacinante da cui sembrano provenire e a cui sembrano ritornare gli angeli, e al contempo è “messa in risonanza” dai suoni, dalla voce, dai gesti e dagli sguardi diretti verso l’alto degli attori. In questo presente sonoro lieve e stridente, creato dalla musica, i corpi giocano, si rincorrono, sembrano essere sul punto di spiccare il volo, si muovono leggeri e leggiadri sulla terra, accarezzano l’aria, si cercano, si abbracciano. E immediatamente dopo l’unione in un atteso e prolungato bacio, avviene la caduta di un angelo a terra. Tutte le creature alate si dispongono in cerchio intorno a quel corpo e inizia una sorta di rituale presieduto da suoni cupi, una voce altisonante e l’arrivo di un uomo vestito di blu, uno stregone, forse uno sciamano, uno psicopompo che presidia la trasformazione dell’angelo nel corpo giallo, luminoso di una nuova creatura. Creatura ambigua, umana, animale o forse vegetale, con una grande spirale disegnata sul petto: simbolo che lega, annoda, congiunge gli opposti, rinvia alla possibilità di una ricongiunzione tra soggetto e oggetto, tra uomo e mondo. Intorno a questa creatura aurea gli angeli iniziano a danzare e volteggiare per poi trovare riposo nella terra. E tenendo lo sguardo rivolto alla terra l’immagine e i suoni si innalzano di nuovo verso l’alto, evocando la presenza di un cielo necessario.
Qui la musica si rende silenziosa e le parole tornano a impastarsi con la materia sonora e visiva per nuovi possibili affioramenti nel paziente e faticoso esercizio di ascolto e restituzione della sonorità delle immagini.
“We haven’t found the words to describe our music. Maybe we will one day. Thanks”. Sigur Rós.